Dire che il web 2.0 facilita l’autopromozione può sembrare scontato. Blog e social network concedono a chiunque quel “quarto d’ora di celebrità” che prima era magari conquistato con molta più fatica e a caro prezzo. Oggi promuoversi sembra molto più semplice rispetto all’epoca del cartaceo e del web 1.0.
L’informazione viaggia molto velocemente e, grazie alla molteplicità di canali, è facile diffondere il proprio messaggio ed amplificarlo: basta pensare a come sia facile scrivere un post e segnalarlo ai vari aggregatori che portano traffico o ai social più frequentati come Facebook e Twitter. C’è chi automatizza il processo di diffusione grazie alle varie applicazioni per feed: tecnicamente è un percorso ineccepibile.
Ma a volte proprio la possibilità di dare eco al proprio messaggio diventa una bramosia così grande che copre il contenuto del messaggio stesso. Il desiderio di amplificazione, di aumento delle basi di ascolto, porta spesso a seguire cliché di successo che uccidono l’originalità. Il riportare la stessa notizia, la stessa opinione, lo stesso link, solo per mettersi in luce su piazze virtuali diverse, non è affatto social, anzi, nella sua degenerazione è anti-social, è quello che nel titolo del post ho chiamato “ecoismo”: la voglia matta di occupare gli spazi sociali con i propri contenuti, qualcosa di simile all’opera dei graffitari più spinti e border line, che deturpano con le proprie scritte i monumenti famosi. Esserci, mettere la firma, apparire: quando l’autopromozione si ferma qui, dimenticando il ruolo fondamentale dei contenuti e della maniera di porsi e relazionarsi, allora diventa “ecoismo”.