Ho letto un articolo su Daily Net su uno studio americano (“Natural born clickers“) svolto dal centro media Starcom, dal network di behavioural targeting Tacoda e dalla compagnia digitale comScore sul CTR. Devo confessare che sono rimasto un po’ sorpreso che ci volesse uno studio americano per dire certe cose.
Perchè se in Italia sono consapevole siano ancora poche le aziende che usano come strumento di monitoraggio (e quindi di successo) le conversioni e il comportamento sul sito da parte del navigatore, pensavo che almeno negli USA la situazione fosse più avanti. Che si parlasse di brand reputation anzichè di ctr. Che non si pensasse a misurare il CTR nelle campagne di branding. Ma che lo si utilizzasse nelle campagne di pay per click o nei test di efficacia su diverse keywords.
Forse cercavano una conferma. Riporto alcuni passaggi significativi:
- “L’80% dei click sugli annunci online viene generato dal 16% degli utenti internet”.
- “Gli heavy clickers rappresentano solo il 6% della popolazione online ma contano per il 50% di tutto il display e il click. Il 30% di click è effettuato da “moderati” clickers, un gruppo che rappresenta il 10% della popolazione”.
- (lo studio) “non evidenzia alcuna connessione tra l’atteggiamento nei confronti di un brand e il numero di volte in cui una sua campagna online è stata cliccata. La ricerca sottolinea come, quando le campagne digitali hanno obiettivi di branding, la massimizzazione del click rate non necessariamente migliora la performance della campagna”.
- … “non possiamo contare sul click through rate come misurazione primaria dell’efficacia dell’online advertising“.
- “Mentre il click può continuare a essere un sistema di misurazione efficace per le campagne di direct response, questo studio dimostra che la click performance è il modo sbagliato di misurare le comunicazioni online brand building” ha dichiarato Erin Hunter, executive vice president di comScore”.