Già, fingere o non fingere? Questo è il problema. La recente querelle Camisani Calzolari – Grillo vista lato marketing e non dal versante della polemica politica, ha riportato alla ribalta la problematica dei fake. Secondo i dati di Facebook sono ben 83 milioni (su 955 milioni) i profili falsi registrati: quanti siano usati a scopo aziendale non è specificato. Certo, toccare questo argomento in pubblico scatena moralismi e levate di scudi: “I fake, giammai”. Le web agency spergiurano di non usarli, le aziende ribadiscono di non sapere nemmeno il significato della parola, ed i fake, questi fans ideali scesi dall’iperuranio per reincarnarsi su forum e social network? Beh, loro mica possono dichiarare di esser falsi prodotti dell’immaginazione, ne andrebbe della loro ragione di esistere. Certi fake, inoltre, non hanno nemmeno diritto di parola, sono follower senz’anima né vita, una tweettata e via. I fake di Facebook invece sono più vivaci, hanno amici che li contattano per gli auguri per il compleanno o inviti per giocare ad Angry Birds. Quelli sui forum, poi, scrivono, scrivono, scrivono. Ed usano aggettivi tipo meraviglioso, ottimo, bellissimo. C’è persino una nuova moda del fake che denigra il prodotto o servizio concorrente: allora gli aggettivi si ribaltano in pessimo, sconsigliatissimo, inutile.
In tutto questo parco di falsi aggettivi e personalità fittizie, c’è chi parla di un’etica del fake, lo depura dal nome sgradevole, magari lo chiama avatar, come fosse lo specchio fedele di un testimonial reale che per pudore non vuole scrivere sui forum: già, perché ora le aziende e le web agency hanno anche l’evoluto potere di leggere la mente e il sentimento di chi non ha il coraggio o la voglia di postare.
Sotto altri aspetti, il fake sembra ormai irrinunciabile, molti pensano che sia un modo nuovo di avvicinarsi al cliente, di stabilire una relazione più stretta. “Ma un fake non lo facciamo?” sibilano nella stanza chiusa i responsabili marketing. Già, nella stanza con le tende alle finestre e la porta blindata, perché non hanno il coraggio di aprire un dialogo vero ed allora hanno bisogno di una maschera di cera che protegga loro ed il brand. “D’altra parte bisogna vendere”. E per vendere si scende a semplici ed innocenti compromessi con la verità. Ma che il marketing sia anche indorare la pillola non è certo una scoperta rivoluzionaria: non servivano i social network ad insegnarcelo. Qui però la pillola, già placcata oro, viene avvelenata. Qui non si creano bisogni, si creano false persone, false conversazioni. Non c’è nemmeno creatività: il fake è il più delle volte utile, funzionale, fin troppo concreto. Dal punto di vista della pubblicità tout court sarebbe un personaggio arido, una marionetta di bassa qualità. Però è social, quanta emozione: “Fai intervenire il fake!”, quasi fosse un premio oscar animato, un supereroe in grado di aggiustare ogni situazione.
Ma tu in verità, hai mai usato un fake? Ah già, non si può dire. C’è del marcio nel social marketing.
Articolo scritto da:
Stefano Piotto